giovedì 10 gennaio 2008

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martedì 20 novembre 2007

Dignità del Paese o avvocati dell'ideologia?



L'articolo 52 della legge finanziaria 2008 appena licenziata dal Senato, recita, tra l'altro: “...Per incrementare l'assegno di dottorato di ricerca il fondo ordinario è aumentato di 40 milioni di euro l'anno dal 2008 al 2010. ”. Alcune prime stime provvisorie parlano di un possibile futuro stipendio per un dottorando di circa 1100-1200 euro mensili. Ovverosia, uno stipendio allineato a quanto pagato da altri grandi Paesi europei per i propri studenti.
L'emendamento è stato proposto dal professore Valditara, senatore nelle file di Alleanza Nazionale, ed è stato approvato contro il parere negativo del relatore di maggioranza, ma con i voti favorevoli di alcuni indipendenti, come Rossi, Turigliatto, Fisichella. E con il voto contrario, ma apparentemente “sofferto” di esponenti della maggioranza.

Quando mi interrogo sul senso della politica, e delle scelte che quest'ultima comporta, oramai da molto tempo faccio fatica ad etichettare come “di destra” o “di sinistra” alcuni provvedimenti. Cerco, per quanto possibile, di giudicarli singolarmente lontani da schemi precostituiti, che hanno spesso la tendenza a distorcere la visione sino a far apparire le cose per ciò che non sono.
In particolare, vi sono alcune questioni che non hanno nulla a che vedere con gli schieramenti politici, ma che credo attengano soltanto alla dignità di un Paese, e che siano indicatori di un certo grado di civiltà del Paese stesso.

E' vero che da quando la nostra Repubblica esiste l'approvazione della legge finanziaria ha sempre rappresentato uno tra i momenti più aspri dello scontro politico. E' anche vero che tale asprezza fa si che in maniera provocatoria siano presentati, tra l'altro, emendamenti con il solo scopo di sottolineare le possibili divisioni della maggioranza; cosa quest'ultima ancora più vera nell'attuale situazione politica. Ciò nonostante, ritengo che la considerazione, l'attenzione che un Paese riesce a mostrare per i futuri ricercatori, e quindi il modo in cui questi ultimi sono messi nelle condizioni di lavorare dignitosamente, sia uno di quei piccoli segni che permettono di giudicare, come detto sopra, il livello di civiltà di una Nazione e che percezione abbia quest'ultima del proprio futuro e come intenda affrontarlo.

Trovo che quella parte politica generalmente definita di “centro-sinistra” abbia molto da riflettere in seguito al voto su tale emendamento, la cui bontà è stata riconosciuta anche dal ministro Mussi. Riflettere sulla distinzione esistente tra lotta politica, anche aspra, e dignità, civiltà del Paese. Laddove quest'ultima risulti essere intaccata da una bieca posizione ideologica, allora vuol dire che si è messa da parte “l'etica delle responsabilità”, e che ci si è trasformati, parafrasando Weber, in semplici avvocati dell'ideologia.

Non è dato sapere al momento se il testo finale della legge finanziaria conterrà modifiche al suddetto emendamento; c'è da scommettere che forti pressioni saranno esercitate per recuperare quelle decine di milioni. Spero vivamente però che alla fine dell'iter parlamentare, quelle poche righe non siano state cancellate o profondamente “deturpate”; spero vivamente che alla fine dell'iter parlamentare si possa davvero essere un po' più fieri della classe dirigente e della politica che è capace di esprimere. Spero vivamente che alla fine dell'iter parlamentare ci si possa sentire, almeno un po', più vicini all'Europa più moderna.

lunedì 19 novembre 2007

Discorso del Presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy dinanzi al Parlamento europeo


Strasburgo, martedì 13 novembre 2007

Signor Presidente del Parlamento europeo,

Signore Deputate, Signori Deputati,

Signor Presidente della Commissione,

Signore e Signori

Vi ringrazio di avermi invitato a prendere la parola dinanzi a voi, in questo luogo dove batte il cuore democratico dell'Europa.

Vi ringrazio di darmi l'occasione di farlo ora, nel momento in cui, dopo essere sembrata sul punto di vacillare, l'Europa si desta e riparte in avanti.

Vi ringrazio di permettermi di rinnovare dinanzi a voi l'impegno europeo della Francia e di dirvi che il “no” alla Costituzione europea non era, per il popolo francese, l'espressione di un rifiuto dell'Europa, ma la richiesta di maggiore attenzione nei suoi confronti.

Sin dall'inizio, la costruzione europea è sorretta da una speranza. I popoli attendono ora, e ciò rappresenta una responsabilità per ciascuno di noi, che l'Europa sia all'altezza di tale speranza: una speranza di pace, una speranza di fratellanza, una speranza di progresso. Questa speranza è nata dalle grandi tragedie del XX secolo. Questa speranza è nata dal sangue e dalle lacrime versate da milioni di uomini, di donne e di bambini. Questa speranza è nata da una immensa sofferenza. Questa speranza è che mai più i popoli dell'Europa si dichiareranno guerra, che mai più si vedranno le imprese di conquista, di dominazione, di sterminio che hanno condotto i nostri Paesi sull'orlo dell'annientamento materiale e morale.

Se l'idea europea è potuta nascere, è perché un giorno, dei grandi Europei si sono tesi la mano attraverso le frontiere, frontiere per le quali tanti uomini erano morti, e che i popoli che avevano troppo sofferto hanno seguito, decidendo che il tempo dell'odio era finito, e che era ora necessaria l'amicizia.

Se la costruzione europea è divenuta possibile, è perché i nostri popoli, inorriditi da ciò che avevano fatto, non volendo più battersi, perché consapevoli che una nuova guerra sarebbe stata fatale, decisero di amarsi, di capirsi, di lavorare insieme per forgiare un destino comune.

Bisogna considerare la costruzione europea per ciò che è, un'esigenza morale, un'esigenza politica, una politica spirituale.

La costruzione europea costituisce l'espressione della volontà comune dei popoli dell'Europa che si riconoscono nei valori, che si riconoscono in una civiltà comune e che desiderano che questi valori e questa civiltà continuino a vivere.

L'Europa non può essere soltanto una macchina. L'Europa non può essere solo un macchina amministrativa. L'Europa non può essere soltanto un apparato giuridico, una macchina capace solo di emanare delle norme, dei regolamenti, delle direttive, un apparato capace soltanto di produrre procedure e regole.

L'Europa non può essere tenuta in disparte dalla vita reale, distante dai sentimenti e distante dalle passioni umane.

L'Europa non rappresenta una realtà e non ha nessuna possibilità di esistere per milioni di uomini e di donne, quali che siano le loro convinzioni, se non risulterà viva, capace di parlare ai loro cuori, se non costituirà la speranza di una vita e di un mondo migliori. O l'Europa rappresenterà un grande ideale, o l'Europa non esisterà più.

Quando i popoli dicono “no”, non bisogna pensare che i popoli abbiano torto, bisogna invece domandarsi perché essi abbiano detto “no”.

Personalmente, ho votato “si”, ma noi sappiamo tutti che il “no” francese ed il “no” olandese esprimevano molto più che un semplice rifiuto di un testo, per quanto importante potesse essere.

Noi sappiamo tutti che tale rifiuto era il segno più visibile di una profonda crisi di fiducia che non servirebbe a niente negare ed alla quale bisogna apportare delle risposte.

Tutti coloro che amano l'Europa devono considerare seriamente questo “no” di due tra i popoli fondatori, di due popoli che hanno sempre scelto l'Europa.

In questo “no” era celata un'angoscia, di milioni di uomini e di donne che avevano perso la speranza nell'Europa. Perché? Perché sentivano che l'Europa non li proteggeva più sufficientemente, perché sentivano che l'Europa era divenuta indifferente alle difficoltà proprie della loro vita. Che questi timori siano ingiustificati è un altro discorso. Sono convinto che milioni di donne e di uomini, quale che sia il loro Paese, condividono tali timori.

Questo “no” ha rappresentato un disastro. Ha fatto sprofondare l'Europa nella più grave crisi della sua storia. Ma questa crisi che poteva abbattere l'Europa, poteva anche risultarle salutare se avesse condotto tutti coloro che si sentivano indefettibilmente coinvolti dalla sua causa, a riflettere sul perché di una tale crisi.

Dalla creazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, ciò che è stato fatto in Europa ha del prodigioso.

Noi tutti siamo qui rappresentanti di popoli che si sono odiati, che hanno cercato di distruggersi, alcuni dei quali si sono combattuti durante molti secoli.

All'inizio, Paul Henri SPAAK, questo grande Europeo, primo presidente della prima assemblea parlamentare europea, ha detto queste frasi universali ed eterne: “Non bisogna dimenticare niente- poiché sarebbe una profanazione- ma noi abbiamo deciso di tentare la grande avventura che deve, in caso di riuscita, permetterci di salvare ciò che noi abbiamo di più caro e di più bello in comune.”.

E durante mezzo secolo, questa grande avventura è continuata, malgrado innumerevoli difficoltà.

Le assemblee parlamentari che si sono susseguite in quest'aula hanno rivestito un ruolo decisivo. Che mi sia permesso di rendere omaggio a tutti coloro che vi hanno preso parte, perché sono stati i rappresentanti dei cittadini dell'Europa, in tutta la loro diversità.

Tale diversità, sono convinto che non si debba temerla. Tale diversità, dobbiamo rispettarla come la nostra più grande ricchezza. Il dibattito è il sale della democrazia. La democrazia è rappresentata dalla pluralità dei punti di vista. E' il contrario di un sistema dove tutti siano obbligati à pensare la stessa cosa. Uccideremmo l'Europa se ci riunissimo soltanto intorno ad un pensiero unico dove colui che la pensa differentemente sarebbe visto come un cattivo Europeo. Non ci sono cattivi Europei, c'è l'Europa e noi dobbiamo condurre tutti in questa Europa.

Credo nel confronto. Credo nella discussione. E' la ragione per la quale ho sempre preferito la regola della maggioranza a quella dell'unanimità. E non è un impegno da poco da parte di un Presidente francese.

L'unanimità è il sistema che permette ad uno qualsiasi di imporre la propria legge a tutti gli altri. L'unanimità è la certezza che non si deciderà mai niente di grandioso, di audace, e che non si sarà mai capaci de prendere alcun rischio, poiché con l'unanimità ci si allinea a colui che desidera meno per l'Europa.

L'unanimità rappresenta l'impotenza. L'unanimità costituisce l'impossibilità di agire, l'impossibilità di ritornare sui propri passi. E' per tale motivo che ho sostenuto l'estensione della regola della maggioranza nel Trattato semplificato.

Credo nella democrazia. Credo che l'Europa debba essere più democratica possibile. E' per tale motivo che ho sempre creduto che non si rendesse un favore alla causa dell'Europa rifiutando il dibattito, soffocando le critiche, zittendo le divergenze.

Sono convinto che l'Europa debba comportare un dibattito ancora maggiore, più democrazia e soprattutto più politica.

Se l'Europa è riuscita ad uscire dall'impasse è perché in occasione del vertice di Bruxelles, i capi di Stato e di governo, coscienti di avere il destino dell'Europa nelle loro mani, hanno preso una decisione politica. A Bruxelles, quel giorno, la volontà politica di capi di Stato e di governo di differenti Paesi ha spazzato via tutti gli ostacoli che sembravano sino a quel momento insormontabili.

Cos'è la politica? E' stato il prendere atto del fallimento del progetto di Costituzione.

E' stato il proporre ai Francesi che avevano votato “no” di negoziare un trattato semplificato per sbloccare l'Europa e di far ratificare tale scelta dal Parlamento, così come l'avevo preannunciato in occasione della campagna elettorale per le presidenziali. Sono stato autorizzato dal popolo francese a far ratificare il trattato semplificato dal Parlamento. Aggiungo che mi sembra curioso dire che il Parlamento Europeo è il luogo dove batte il cuore democratico dell'Europa, e poi contestare che una ratifica parlamentare sia democratica; perché se il Parlamento Europeo rappresenta la democrazia per l'Europa, il Parlamento Francese rappresenta la democrazia per la Francia.

La politica, per quei Paesi e per quei parlamentari che avevano ratificato il progetto, e voglio in questa occasione rendere loro omaggio, ha significato accettare di riaprire i negoziati su un altro progetto meno ambizioso. Se abbiamo potuto sbloccare l'Europa, è perché i Paesi che avevano votato “no” hanno fatto uno sforzo; ma voglio omaggiare coloro tra di voi che credono nella Costituzione per aver accettato di discutere di un altro progetto. L'Europa è uscita dalla crisi perché c'è stato un movimento di doppia buona volontà, e il trattato semplificato rappresenta una vittoria dell'Europa stessa. E' una vittoria della coscienza europea che si esprime nella politica.

Ora, ed io mi assumo le mie responsabilità, l'errore sarebbe quello di credere che con il trattato semplificato l'Europa abbia risolto tutti i suoi problemi, che si possano dormire sonni tranquilli e che non vi siano più questioni da risolvere. Il trattato semplificato risolve la crisi istituzionale, ma non risolve la crisi politica e morale dell'Europa. Permette all'Europa di decide e di agire. Ma esso non indica la direzione e le finalità. Non dice cosa sarà l'Europa di domani e come contribuirà a migliorare la vita dei cittadini. Non restituisce argomenti a coloro che avevano smesso di credere nell'Europa perché ritrovino nuovamente fiducia in essa.

Il problema istituzionale è risolto. Restano ora da risolvere i problemi politici. Bisogna metterli in luce e discuterne senza tabù.

L'Europa ha scelto la democrazia, e in una democrazia bisogna poter discutere di tutto: della politica finanziaria, della politica commerciale, della politica monetaria, della politica industriale, della politica fiscale, di tutte le politiche, quali che siano, altrimenti non vale la pena affermare che si vuole un Europa democratica.

L'Europa ha scelto la democrazia, ed in una democrazia nessuna indipendenza può essere confusa con un'irresponsabilità totale. Nessuno può approfittare dell'indipendenza del proprio status per sentirsi dispensato dal rendere conto, dallo spiegarsi e dall'essere controllato.

In una democrazia, la responsabilità politica è un principio universale, essenziale, inevitabile.

Allora, nella democrazia europea, bisogna poter discutere delle finalità e degli obiettivi dell'Europa. Ho proposto che sia creato un comitato di saggi per riflettere sull'avvenire e che si possa poi discutere tutti insieme dei diversi possibili scenari dell'Europa. Perché vi sono diverse strade, ed io mi domando come potremo scegliere quella buona se ci rifiutiamo in tutti i modi di parlarne.

Nella democrazia europea bisogna poter discutere dell'identità europea e delle identità nazionali. Bisogna poter discutere del modo in cui l'Europa costruisce la sua propria identità e la difende. Bisogna poter discutere del modo in cui l'Europa protegge le identità nazionali che rappresentano una ricchezza per l'Europa.

Noi non dobbiamo aver paura delle identità. Cercare di preservare la propria identità non è una malattia. E' quando le identità si sentono minacciate, quando si sentono attaccate che si irritano e diventano poi pericolose perché aggressive.

I popoli europei attraversano una profonda crisi di identità. E' una crisi presente sia nelle Nazioni che nell'idea di civiltà che tutti gli europei hanno in comune e che rappresenta la vera unità dell'Europa. E' una crisi che è legata alla globalizzazione ed alla mercificazione del mondo.

Costruire inizialmente l'Europa attraverso l'economia, il carbone e l'acciaio, attraverso il commercio fu un colpo di genio dei padri fondatori. Ma la politica ha accumulato un eccessivo ritardo sull'economia e ancor più sulla cultura. E' un errore aver dimenticato l'Europa della cultura.

In un mondo minacciato dall'uniformazione, in un mondo dominato dalla tecnica, dove i valori del mercato tendono ad avere la meglio su tutti gli altri, l'Europa non può essere se stessa agli occhi di tutti gli uomini se non difende dei valori, quei valori di civiltà, quei valori spirituali, se non raccoglie tutte le proprie forze per difendere le diversità culturali. Cosa mai potremo difendere noi, mi domando, in termini di diversità se non preserveremo le nostre identità?

L'Europa deve fare in modo di non essere vista come una minaccia contro le identità ma come una protezione, come un mezzo per permettere loro di vivere anche nell'ordine morale. I diritti dell'uomo fanno parte dell'identità europea.

Dappertutto nel mondo, ogni volta che un essere umano è oppresso, che un uomo è perseguitato, che un bambino è martirizzato, che un popolo è sottomesso, l'Europa deve far sentire vicina la sua presenza. Perché l'Europa dei diritti dell'uomo deve rimanere fedele à se stessa.

Ed è compito dell'Europa portare la questione dei diritti dell'uomo in tutte le regioni del mondo.

Nella democrazia europea, aggiungo che tutti coloro che hanno vissuto l'esperienza di rinunciare alla difesa dei diritti dell'uomo a beneficio dei contratti, non hanno avuto i contratti ed hanno perso sul terreno dei valori. Nella democrazia europea, la parola protezione non deve essere esiliata. Se vogliamo che un giorno i popoli non siano esasperati dal sentirsi vittime della concorrenza sleale e dei dumping, se noi non vogliamo che questi stessi popoli reclamino il protezionismo e la fermezza, allora noi dobbiamo avere il coraggio di discutere di ciò che deve costituire una vera priorità a livello comunitario. Noi dobbiamo essere capaci di proteggerci allo stesso modo in cui gli altri si proteggono. Dobbiamo dotarci degli stessi strumenti che gli altri già hanno. Se le altre regioni del mondo hanno il diritto di difendersi contro i dumping, perché l'Europa dovrebbe subire ciò? Se tutti i Paesi hanno delle politiche di scambio, perché l'Europa non dovrebbe? Se le altre Nazioni possono riservare una parte dei loro mercati alle loro piccole e medie imprese, perché non l'Europa? Se altri Paesi mettono in opera delle politiche industriali, perché non l'Europa? Se altre Nazioni difendono i loro agricoltori, perché l'Europa dovrebbe rinunciare a difendere i suoi?

L'Europa non vuole il protezionismo, ma l'Europa deve reclamare la reciprocità.

L'Europa non vuole il protezionismo, ma l'Europa ha il dovere di assicurare la propria indipendenza energetica e la sua indipendenza alimentare.

L'Europa vuole essere un esempio nella lotta al riscaldamento climatico, ma l'Europa non può accettare la concorrenza sleale dei Paesi che non impongono alcun vincolo ecologico alle loro imprese.

L'Europa è legata alla concorrenza. Ma l'Europa non può essere l'unica al mondo a farne una religione. Ecco perché al vertice di Bruxelles, è stato deciso che la concorrenza rappresentava per l'Europa un mezzo e non un fine.

L'Europa ha fatto la scelta di un'economia di mercato e del capitalismo. Ma tale scelta non implica una libertà assoluta, e la deriva di un capitalismo finanziario che avvantaggi gli speculatori ed i beneficiari di rendite piuttosto che gli imprenditori ed i lavoratori.

Il capitalismo europeo è sempre stato un capitalismo di imprenditori, un capitalismo di produzione piuttosto che un capitalismo di speculazione e di rendite.

Si, io ne sono convinto, l'Europa deve giocare un ruolo nel necessario processo di moralizzazione del capitalismo finanziario. E ciò che è successo con la crisi dei subprime, dove qualche speculatore ha messo in causa la concorrenza mondiale, l'Europa non può accettarlo. Su tutti tali soggetti, noi abbiamo delle idee e dei punti di vista differenti.

Ma ciò non può costituire un buon motivo per non parlarne. Noi dobbiamo discuterne sino a quando non si sia riusciti ad avvicinare sufficientemente i nostri punti di vista per poter costruire una politica comune. Tutti questi soggetti saranno al centro delle priorità della Presidenza francese.

Vi sono altri temi:

  • La rifondazione della politica agricola comune.

  • Il problema della fiscalità ecologica.

  • Il problema delle energie rinnovabili e dell'economizzare l'energia.

  • La questione della difesa.

Come può l'Europa essere indipendente, ed avere un'influenza politica nel mondo, come l'Europa può costituire un fattore di pace e di equilibrio se non è capace essa stessa di assicurare la propria sicurezza?

Cosa significa per ciascuno di noi il nostro impegno europeo se non siamo capaci di discutere della costruzione di una difesa europea e della rinnovazione dell'alleanza atlantica?

Che significato ha il nostro impegno per l'Europa se ciascuno di noi non è capace di fare uno sforzo per la difesa di tutti?

Nel trattato della CECA e sino al trattato semplificato, i popoli europei hanno costruito una solidarietà. Essa si manifesta nella politica regionale, ma essa deve anche esprimersi nella difesa. Deve esprimersi in una politica europea dell'immigrazione, in un'Europa dove la circolazione è libera tra gli Stati membri. Tale politica non può essere se non una politica comune di immigrazione. Non è possibile appartenere allo spazio Schengen e regolarizzare senza informare gli altri. Poiché la regolarizzazione in un Paese ha un impatto su tutti gli altri Paesi del suddetto spazio Schengen.

Quando sono stato eletto Presidente della Repubblica, mi sono fissato come priorità di rimettere la Francia al centro della costruzione europea. Ho voluto che la Francia superasse i proprio dubbi impegnandosi difronte all'Europa. So perfettamente che la Francia non riuscirà ad avere la meglio su tutti i temi. Ma voglio che la Francia riprenda tutto lo spazio che le compete in Europa. Ho riannodato il dialogo con le istituzioni comunitarie e voglio ringraziare il Presidente Barroso della fiducia che ha permesso di stabilire tra la Francia e la Commissione Europea. Oramai, la politica della Francia è di lavorare in stretta collaborazione ed in completa fiducia con le istituzioni europee, il Parlamento europeo et la Commissione europea. Dispiegherò tutti i mezzi a mia disposizione perché ciascuno si riconosca in questa visione.

Tutti i miei mezzi perché l'Inghilterra ratifichi il Trattato semplificato, perché l'Europa ha bisogno dell'Inghilterra.

Tutti i miei mezzi per impegnarmi fortemente nel dialogo con i Paesi dell'Est che avevano talvolta il sentimento giustificato che non li avessimo ascoltati abbastanza. Se la storia ha condannato dei popoli europei ad aderire più tardi all'Europa ciò non vuol affatto dire che essi abbiano meno diritti. Hanno gli stessi diritti dei Paesi fondatori. Questo è lo spirito europeo.

E' ciò che ho fatto proponendo l'Unione del Mediterraneo senza escludere nessuno, continuando il lavoro fatto a Barcellona. Ma se il lavoro fatto a Barcellona fosse stato sufficiente, lo sapremmo. C'è bisogno, quindi, di una nuova ambizione. Ho voluto che la Francia costituisse nuovamente il motore dell'Europa, perché quando la Francia va bene, è tutte l'Europa che può approfittarne.

Nessuno in Europa può essere interessato ad un Francia debole, incapace di trovare in se stessa l'impulso della crescita. Nessuno in Europa ha interesse ad una Francia in declino, ad una Francia che dubiti di se stessa o ad una Francia che ha paura dell'avvenire.

Ho intrapreso una politica di riforme. Non è nell'interesse dell'Europa che queste riforme falliscano, perché è grazie a queste riforme che la Francia risanerà le finanze pubbliche, e rispetterà quindi i suoi impegni. Tali riforme sono state approvate dai Francesi. Ho detto loro tutto prima delle elezioni ed è per tale motivo che condurrò queste riforme sino in fondo. Niente potrà distrarmi dal mio obiettivo. E ciò è il miglior favore che la Francia può rendere all'Europa.

Signore deputate e Signori deputati,

In questa città di Strasburgo, tanto cara al cuore dei Francesi ed ormai indissolubilmente legata nello spirito di tutti gli Europei alla vostra Assemblea. In seno al vostro Parlamento, tanto capace di animare il dibattito democratico. Qui, in questa tribuna dove si espresse tante volte, rivolgo un pensiero a Simone Veil che fu nel 1979 il primo presidente donna della prima assemblea parlamentare europea eletta a suffragio universale diretto. Che mi sia permesso di renderle omaggio per il suo contributo alla causa europea e per il suo contributo alla causa delle donne.

Si è battuta perché fossero rispettati i loro diritti, perché fosse rispettata la loro dignità.

Il Vostro Parlamento è sempre stato fedele a tale comportamento.

Simone Veil diceva: “Quali che siano le nostre differenze di sensibilità, noi condividiamo la stessa volontà di realizzare una comunità fondata su un patrimonio comune ed un rispetto condiviso dei valori umani fondamentali. E' con questo spirito che vi invito ad abbordare fraternamente i compiti che ci aspettano”.

Faccio mie queste parole.

Tali parole costituiscono una sfida. In particolare, costituiscono quella sfida che i nostri concittadini europei si aspettano che l'Europa accetti.

Non abbiamo più tempo da perdere. L'Europa ne ha già perso tanto negli ultimi dieci anni, non abbiamo più tempo da perdere per far si che i popoli riconquistino la fiducia nell'Europa.

Potete contare sull'impegno europeo senza cedimenti da parte della Francia.

Vi ringrazio.

mercoledì 15 agosto 2007

Spogliare una donna (e svilire la fotografia) per qualche euro in più



Queste mie brevi riflessioni hanno preso spunto dalla rubrica “Lettere al Direttore” curata da Vittorio Zucconi sul sito web del quotidiano La Repubblica. In particolare, la mia attenzione è stata destata dalla risposta ad un lettore che chiedeva come mai sul sito del quotidiano francese “Le Monde”, non vi fossero tante “belle donne discinte” come invece appaiono quotidianamente sul sito di Repubblica. La pronta risposta del direttore è stata che “forse i francesi preferiscono vedere le gambe del loro presidente mentre fa jogging”, aggiungendo, per terminare, che “chacun à son goût”. Imbattibile. Ma non è finita qui. Qualche tempo addietro, ad una lettera da parte di una lettrice che si rallegrava di poter sfogliare il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine senza incappare continuamente in donne poco vestite, seguì una risposta assai piccata in cui il giornale fu definito, più o meno, noioso per quel suo stile austero.
Come il direttore Zucconi sa bene, il quotidiano francese Le Monde dedica ampio spazio alla fotografia, sia nella versione cartacea che sul proprio sito web. Ciò deriva da una profonda cultura fotografica molto radicata nei nostri cugini d’oltralpe, che hanno sempre riservato alla fotografia un posto di primo piano nel panorama artistico. Basti ricordare l’esistenza di importanti musei nella capitale francese e nel resto della Francia interamente dedicati all’arte di Niépce, Talbot, Doisneau, Cartier-Bressons e di tanti altri. Ampi sono gli articoli e le foto-gallerie dedicate ad importanti mostre allestite non soltanto sul territorio francese, che per la loro importanza meritavano di essere illustrate e discusse. Illustrate e discusse in quanto fotografie, in quanto opere di artisti, non per le modelle nude eventualmente ritratte.
Credo che nella redazione del quotidiano francese, così come quello tedesco, siano tutti ben coscienti che sia possibile fare del buon giornalismo e riuscire a vendere le proprie notizie, spingendo i lettori interessati a visitare il proprio sito online, senza farcire il tutto con una serie di novelle che nulla hanno a che fare col giornalismo, che riguardi, quest’ultimo, l’ultima crisi di governo, le elezioni legislative nel Paese X, un recente fatto di cronaca nera o la presentazione di una esibizione di quadri o fotografie. Credo che siano tutti ben coscienti che sia possibile fare del buon giornalismo senza dedicare sempre più spazio a gallerie, i cui nomi spaziano più o meno da “I nudi allo specchio” a “Le modelle di John”, da “I ritratti senza veli di Margherita” ai “Corpi senza tempo…(e senza vestiti)”, e via discorrendo.
A chiunque abbia fatto notare l’ingombrante presenza quotidiana di gallerie simili è stato sempre risposto che si è liberi di scegliere se visitare o meno le suddette pagine e che ciò aiuta a vendere di più. Ecco il motivo principale per cui tanto spazio è dedicato a tali gallerie. Io credo che non vi sia affatto l’interesse, o che esso sia soltanto parziale, nella presentazione del lavoro artistico di un autore, ma che si punti fondamentalmente su quanto la foto di nudo possa attirare potenziali clienti e far quindi aumentare i possibili introiti. Tutto ciò è perfettamente legittimo. Vorrei però che tutto ciò fosse sempre tenuto presente e che si ironizzasse poco sulla presunta noia degli altri quotidiani, molti dei quali rivestono un ruolo di primo piano nella stampa internazionale. Non solo perché la noia può assalire il lettore-cliente di qualunque sito che mostri poca fantasia, ma anche perché una semplice domanda sorge spontanea: quanto contribuiamo, con tali comportamenti, all’immagine che noi italiani abbiamo delle donne (ed aggiungo della fotografia) se siamo pronti ad utilizzarle solo per attirare gli sguardi e vendere i prodotti? E se tali atteggiamenti vengono da persone che avrebbero materialmente la possibilità di imporre scelte differenti, saremo mai in grado di costruire un collettività dove la mercificazione del corpo femminile tende a svanire? Forse bisognerà chiederlo a Adrian Michaels.
PS: L'aggiornamento del blog riprenderà a settembre.

domenica 22 luglio 2007

Istruzione, cultura e politica


La cultura è l'unica cosa che possa rendere gli uomini davvero liberi.
Immaginare di intraprendere una qualsiasi riforma profonda della società italiana, credendo che sia sufficiente proporre ed approvare nuove leggi perché comportamenti virtuosi fioriscano e diventino la norma è puramente illusorio. Non faremo altro in questo modo che riempire le mensole di nuovi testi giuridici che con il passare del tempo si rivelerebbero per quello che sono: contenitori di sogni e molta polvere.
Immaginare, per citare un esempio, che una riduzione di qualche punto della pressione fiscale, possa generare un meccanismo che spinga tutti coloro che le tasse non le hanno mai pagate, o spesso evase, a divenire contribuenti modello, significa sottovalutare il problema, o addirittura volerlo ignorare coscientemente. Perché se è vero che esistono ambiti in cui una riforma legislativa potrebbe apportare benefici procedurali, con una conseguente semplificazione burocratica, la stessa cosa non potrà mai avvenire nella ricerca e nella ridefinizione di una nuova forma di convivenza civile, nella nascita in ciascuno di noi di una coscienza del ruolo che occupiamo nell'ambito di una collettività formata da una moltitudine di individui; ciascuno dei quali è portatore di esigenze ed interessi molteplici ma che devono avere come fine ultimo il benessere della società nel suo complesso.
Parafrasando l'economista scozzese Adam Smith, potremmo asserire che oggigiorno, in Italia, economia di mercato capitalista perfettamente organizzata, ogni individuo, lavorando per perseguire il solo proprio interesse ed il solo proprio benessere, contribuisce (essendone ben cosciente) soltanto alla propria ricchezza ed alla morte civile e sociale dei suoi simili, delle istituzioni repubblicane, e quindi della società nel suo complesso.

Una nuova Italia richiede un cambiamento profondo, in molti casi radicale”. E' quanto ha affermato Veltroni durante il suo discorso di investitura di candidato alla guida del nascente Partito Democratico al Lingotto di Torino. Ma come può avvenire questo cambiamento radicale? Siamo proprio certi che la colpa sia da ricercare nelle istituzioni spesso giudicate inadeguate e prive di mezzi giuridici per far si che l'interesse collettivo sia perseguito e tutelato? Oppure bisogna riconoscere che disponiamo nel nostro Paese di validi strumenti legali, e che ciò che manca e che degrada senza sosta il tessuto sociale ed il vivere collettivo è da ricercare altrove?
In un interessante saggio che raccoglie una serie di lezioni tenute all'università di Königsberg tra il 1776 ed il 1787, ed intitolato nella sua edizione francese “Riflessioni sull'educazione”, Kant afferma: «L'uomo può divenire uomo soltanto attraverso l'educazione. Egli non è nient'altro se non ciò che l'educazione fa di lui...L'uomo ha bisogno...della cultura che comprende la disciplina e l'istruzione.» Secondo Kant, «...la disciplina trasforma la parte bestiale dell'uomo in umanità...» ed è l'unico modo che l'uomo possegga per apprendere il rispetto delle regole e della legge. Ma l'educazione, che egli definisce un arte, «...non deve puntare ad educare sulla base dello stato attuale della società, ma rispetto ad un possibile futuro migliore...L'educazione dovrebbe essere migliore perché uno Stato migliore possa nascere...». Ma egli è cosciente di quanto difficile possa essere educare, se afferma che «...sono due le scoperte dell'umanità da considerare le più difficili: l'arte di governare gli uomini e quella di educarli...Ma da chi bisogna aspettarsi uno Stato migliore? Dai Principi o dal popolo? ...Se un migliore Stato della società deve essere stabilito dai Principi, allora è necessario che l'educazione di questi ultimi sia migliore...»
Ma governare un popolo che non sia disciplinato e tanto meno educato, risulterà ancora più complesso e pericoloso. Complesso per l'impossibilità che le leggi siano rispettate da tutti con disciplina e con la consapevolezza che soltanto tale rispetto possa operare per lo sviluppo di una società ugualmente di tutti. Pericoloso, perché il venir meno di tale osservanza, non farà altro che far sorgere una società in cui la sopraffazione del più debole si ergerà a norma.
Si è proprio certi che l'interesse dei Principi sia quello di governare un popolo capace di un'analisi critica e profonda dei provvedimenti da loro approvati ed imposti? Perché questo dovrebbe essere uno dei fini ultimi di una vera istruzione ed una vera cultura: fornire gli strumenti, diretti ed indiretti, perché ciascuno abbia le capacità critiche che gli permettano di comprendere ciò che davvero è fatto, o può essere fatto, nell'interesse della collettività e ciò che invece tende a difendere le rendite di gruppi che si muovono ed agiscono nel solo personale interesse. Questo vuol dire fornire i mezzi per potersi difendere ed agire costruttivamente per il proprio benessere e quello degli altri.
L'unica strada che lo Stato italiano possa percorrere perché ciò accada, perché davvero un nuovo tipo di cittadino possa nascere, ed una nuova coscienza collettiva di rispetto verso le istituzioni repubblicane ed il resto della società possa diffondersi è quella di riversare nel campo dell'istruzione tutte le risorse disponibili prioritariamente rispetto a qualsiasi altro campo d'intervento. Questa dovrebbe essere la priorità per chiunque decidesse di proporsi alla guida del Paese.
Mi si obietterà che tutto ciò richiede tempi molto lunghi e che non riguarderebbe che le generazioni future. Ma potremmo affermare che solo per questo dovrebbe essere considerato impossibile e quindi meritevole di essere accantonato? Sempre Kant, parlando di una repubblica, da lui definita, perfetta, governata ossia sulla base delle regole dettate dalle leggi, afferma « E' sufficiente che la nostra idea sia corretta perché essa non sia completamente impossibile, a dispetto di tutti gli ostacoli che si opporranno alla sua realizzazione ».
E' naturale immaginare soluzioni che costituiscano solo palliativi e che non forniscano i mezzi perché strade diverse e, si auspica, migliori possano vedere la luce? E' giusto continuare ad illudere il popolo, raccontandogli dell'esistenza di soluzioni miracolose?
Io credo invece che si debba cercare pazientemente di convincerli che il solo modo che essi hanno di uscirne è che siano loro a trovare la strada grazie ai mezzi che lo Stato si sarà preoccupato di fornirgli con un lungo e meticoloso percorso educativo.

sabato 19 maggio 2007

Di seguito è riportato il documentario, con sottotitoli in italiano, realizzato dalla BBC e trasmesso nel Regno Unito nel 2006 sulle coperture operate dal Vaticano per coprire i crimini a sfondo sessuale da parte dei preti pedofili nelle varie diocesi nel mondo.
Nel nostro Paese, dove la libertà di stampa è costantemente messa a dura prova da molti fattori, tra i quali naturalmente una continua ossequiosità alle gerarchie ecclesiastiche, i mass media nazionali non ne hanno parlato affatto. Tutto è passato sotto silenzio. Anche da parte di coloro che si sono sempre dichiarati concordi nell'affermare che una notizia, quale che sia, dovrebbe essere sempre riportata. Purtroppo questo è vero a patto che non venga infastidito il potente di turno.
E la chiesa è sempre stata molto potente.

Per motivi di copyright il video è stato rimosso.

martedì 8 maggio 2007

Alcune domande sull'Europa al futuro presidente della Repubblica francese.


La vittoria del candidato della destra gaullista alle presidenziali francesi ha rilanciato in molte capitali europee e tra numerosi cittadini il dibattito sui futuri passi che il processo di unificazione europeo dovrà o potrà compiere.
Ricordiamo che il suddetto processo aveva subito una forte battuta di arresto proprio in seguito alla bocciatura, dopo referendum popolare, del trattato per l'adozione di una Costituzione per l'Europa da parte del popolo francese e successivamente olandese. Non va però dimenticato che nel frattempo, il trattato è stato regolarmente ratificato da 18 Paesi sia attraverso la via parlamentare che referendaria.
Il silenzio seguito alla bocciatura del trattato credo abbia segnato uno dei passaggi tra i più tristi ed irresponsabili che il processo di unificazione abbia conosciuto. E' sembrato che il soffio vitale che aveva accompagnato la stesura del trattato, seppur avvenuta tra mille difficoltà, incomprensioni, compromessi, fosse non solo scomparso, ma che avesse strappato e portato via con se il desiderio di procedere sulla via dell'integrazione politica. Certo, l'adozione del Trattato costituiva la finalizzazione di quegli sforzi; eppure, si è avuta l'impressione che una qualche paura si fosse impadronita improvvisamente dei capi di Stato e di governo: il processo di unificazione politica è sembrato essere scomparso, almeno ufficialmente, dalle agende politiche dei vari incontri, soprattutto per ciò che riguardava le possibili soluzioni alternative.
E' mancato un leader capace di affermare con forza ciò di cui si aveva urgentemente bisogno, e cioè del proseguimento, tra gruppi più o meno ristretti, sul cammino dell'unificazione politica. Forse è stato proprio in quei momenti che tutta la debolezza politica dell'Europa è venuta fuori: la mancanza di capacità nel definire un percorso alternativo per tenere saldamente incollati i “pezzi” che avevano deciso democraticamente di starci.
Non è certo la prima crisi di tale portata che l'Europa si trova ad affrontare e non sarà l'ultima. Però nel momento in cui un nuovo presidente francese è stato designato, una riflessione ed alcune domande bisogna che siano esternate, ed in particolare rivolte al futuro inquilino dell'Eliseo.
Nicolas Sarkozy si è sempre dichiarato un convinto europeista, a patto naturalmente che alcune sue idee fossero condivise da tutti gli altri.
Uno dei temi centrali della sua campagna elettorale, è stato il risveglio dell'identità nazionale repubblicana francese, con accenti che sono apparsi frequentemente tanto forti da far pensare ad un certo nazionalismo di ritorno.
Ancora la sera della proclamazione dei risultati, durante i bagni di folla che hanno accompagnato i suoi spostamenti ha sempre tenuto a sottolineare questa rinascita dell'identità francese, accolto da folle urlanti in delirio che cantavano a squarciagola la Marsigliese.
Storicamente parlando, la difesa di una forte identità nazionale, seppur animata dalle migliori intenzioni, ha sempre avuto un costo altissimo. Non mi spingo a quanto avvenuto nella prima metà del XX secolo, ma a ciò che ha costituito il percorso ad ostacoli, dalla nascita ai nostri giorni, della Comunità Europea prima e dell'Unione poi. Un percorso lungo il quale faticosamente si è riusciti con molti equilibrismi e fini compromessi a tenere insieme Paesi che sembravano fatti per essere gli uni lontani dagli altri.
Eppure, anno dopo anno, si era creduto di aver acquisito, forse troppo ottimisticamente, un certo acquis communautaire, un certo savoir faire proprio grazie alle battaglie diplomatiche che faticosamente avevano permesso la costruzione delle fondamenta della comune Casa europea.
Ho l'impressione, ma mi auguro di sbagliarmi, che l'elezione di Nicolas Sarkozy possa riportare le lancette dell'orologio della storia comunitaria di qualche anno indietro, dove l'interesse di parte costituiva l'unico argomento posto sul tavolo dei negoziati.
E sarà tanto più difficile chiedere ad alcuni Stati dell'Europa dell'est un ammorbidimento delle loro posizioni nazionalistiche se per primi i francesi non saranno in grado di comprendere che soltanto una condivisione delle rinunce potrà permettere un fecondo avanzamento sulla via di una costruzione dell'Europa politica.
La preoccupazione per la prossima attitudine della Francia nasce dalle dichiarazioni di Sarkozy di voler riprendere e modificare il trattato costituzionale al fine di sottoporlo nuovamente al vaglio del voto popolare.
Come ha affermato il principale estensore del trattato, presidente dell'assemblea costituente ed ex-presidente della Francia, Valéry Giscard d'Estaing, mettere mano al trattato è impensabile per l'ostilità che si riscontra negli altri Paesi che non hanno alcuna voglia di aprire una discussione che si preannuncia ancor prima di iniziare, lunga ed estenuante, e dove si rischia di riaprire i giochi su tutti i possibili fronti di discussione. Chi deciderebbe dove il trattato debba essere sforbiciato, o ritoccato? E se questo fosse accompagnato dalla richiesta di uno Stato di modificare una clausola sulla quale vi era già stata un'aspra battaglia, con la speranza che la maggioranza possa cambiare, chi potrà dirgli di no?
Ma soprattutto cosa diremo a quei cittadini che hanno approvato per via referendaria il trattato e che si trovano esposti nuovamente ad una discussione che potrebbe portare, ironia della sorte, alla richiesta di un nuovo voto. Non si rischia di indebolire l'istituto referendario e la fiducia dei cittadini nel governo europeo? Non ci si trova dinanzi ad una forma di grave egoismo nazionalistico nel momento in cui si domanda, in nome del rispetto del popolo sovrano, quello del proprio Paese naturalmente, che tutti gli altri Stati chiedano ai propri cittadini di esprimersi nuovamente su qualcosa già largamente accettato in un ampio numero di Nazioni? E se gli altri non accettassero? Bisognerebbe continuare in questo stato di stallo? Oppure qualcuno pensa di adottare nuovamente la politica della sedia vuota? Infine, per quanto imperfetto potesse essere, perché in occasione del referendum francese, mostrando la più classica delle ambiguità politiche, non si è fortemente appoggiato il progetto costituente? Eccetto il presidente Chirac, nessuno degli esponenti di primo piano della politica francese ha sostenuto con vigore il trattato. Per l'europeista Sarkozy, non credo che questa sia la migliore credenziale per presentarsi al prossimo Consiglio d'Europa.
L'Europa ha bisogno di rinnovarsi e di proseguire lungo il cammino delle riforme istituzionali per poter assumere un nuovo volto politico ed un nuovo assetto istituzionale. E se è impensabile modificare le attuali Istituzioni senza il consenso più largo possibile, ed eventualmente, l'unanimità, che allora qualcuno abbia il coraggio di alzarsi e provare a condurre per mano, attraverso gruppi ristretti e collaborazioni rafforzate, il nostro vecchio e caro continente.
Sono i cittadini a chiederlo.

sabato 5 maggio 2007

Déserteurs...aux urnes


Pour tous ceux qui théorisent le combat quotidien entre les gens, suite à leurs idées, leurs extraction sociale, la couleur de leur peau, leur religion;
pour ceux qui pensent qu'on puisse résoudre les problèmes des banlieues en n'utilisant que la police, pour les militariser;
pour ceux qui pensent que le but principale de la vie est de travailler forcement plus pour gagner plus d'argent, et que l'on ne puisse pas dédier du temps à la lecture d'un livre, à regarder le sourire des gens autour de nous;
pour ceux qui pensent que le mot croissance ne se décline désormais plus que pour l'économie, sans imaginer que seul une croissance culturelle pourra comporter une vrai renaissance sociale;
pour ceux qui sont fiers de réveiller le sentiment du nationalisme, en disant, au même temps, d'être pour une Europe politique unie;
pour ceux qui pensent que dire oui ou non ne dépend que de ce que la majorité des citoyens croit, sans avoir une vision capable d'aller au delà des intérêts de son propre Pays pour la construction de la commune Maison européenne;
pour ceux qui commémorent les morts de la Patrie, mais oublient la raison pour laquelle, eux, ils ont combattu.
Pour tous ceux qui s'imaginent déjà président de la République, qui se sentent des généraux prêts à partir pour une mission et qui choisissent leurs peuples en tant que soldats:


Monsieur le président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Monsieur le Président
Je ne veux pas la faire
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens
C'est pas pour vous fâcher
Il faut que je vous dise
Ma décision est prise
Je m'en vais déserter

Depuis que je suis né
J'ai vu mourir mon père
J'ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants
Ma mère a tant souffert
Qu'elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers
Quand j'étais prisonnier
On m'a volé ma femme
On m'a volé mon âme
Et tout mon cher passé
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte
Au nez des années mortes
J'irai sur les chemins

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France
De Bretagne en Provence
Et j'irai dire aux gens
Refusez d'obéir
Refusez de la faire
N'allez pas à la guerre
Refusez de partir
S'il faut donner son sang
Aller donner le vôtre
Vous êtes bon apôtre
Monsieur le président
Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n'aurai pas d'armes
Et qu'ils pourront tirer

Boris Vian, 1954

martedì 1 maggio 2007

Piccola proposta per l'assunzione di nuovi ricercatori nelle università italiane.


L'attuale struttura degli istituti di ricerca italiani ed in particolare delle università permette, a mio avviso, di poter parlare di vera e propria chiusura stagna nei confronti di qualsiasi elemento esterno. Voglio intendere con ciò che la possibilità che ricercatori, che abbiano svolto una parte dei loro studi e del loro lavoro di ricerca in un istituto terzo, sia esso in Italia o all'estero, possano poi essere assunti è molto bassa. Si assiste a casi in cui studenti diventino poi ricercatori senza aver mai messo i piedi fuori dal loro istituto; senza mai essere usciti fuori a confrontarsi con modi di pensare e lavorare differenti.
Non sto mettendo in discussione la validità di questi ricercatori, ma credo che una conseguenza inevitabile di tali diffusi comportamenti sia un impoverimento profondo delle strutture di ricerca che si ritrovano chiuse su se stesse, con una enorme difficoltà ad aprirsi ai circuiti internazionali, e tagliate fuori quindi da grandi progetti transfrontalieri. E se il confronto continuo costituisce uno dei pilastri nell'avanzamento della ricerca, si capisce che il mancato coinvolgimento in network più o meno estesi costituisca un danno profondo al sistema universitario italiano e della ricerca in generale.
Nelle classifiche delle università stilate da vari organi internazionali, uno dei fattori che pesa sul giudizio finale è il grado di internazionalità della struttura universitaria, ossia quanto quest'ultima è capace di attrarre ricercatori dall'estero ed, aggiungo io, dall'esterno.
Oltre sicuramente a vari fattori che possono certamente scoraggiare, credo che le relazioni di lavoro si costruiscano non dall'oggi al domani, ma dopo un lungo percorso e soprattutto negli anni iniziali di formazione, a partire dal dottorato di ricerca, proseguendo poi con i contratti post-dottorali. E' in questo periodo che molte delle amicizie lavorative cresceranno dando poi i loro frutti in collaborazioni nell'ambito del proprio campo di ricerca. Queste collaborazioni, che ciascun ricercatore porta con se, costituiscono a tutti gli effetti un patrimonio fertile non solo, ripeto, per il semplice ricercatore ma anche e soprattutto per l'istituto di ricerca dove egli lavorerà. L'università si ritroverà ad avere in maniera semplice contatti già avviati e ben rodati con altri istituti, italiani e stranieri, avendo la possibilità di instaurare relazioni ancora più profonde con grande beneficio soprattutto per ciò che riguarda la produzione scientifica.
Al contrario, oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, un ricercatore, in Italia, comincerà la sua carriera da studente in un'università per poi essere assunto come ricercatore nella stessa; per poi scalare, si spera, i vari gradini gerarchici sempre nello stesso istituto.
A onor del vero ciò accade anche in altri Paesi europei che spesso sono presi come esempi, ma in maniera molto minore. E sempre meno. L'assunzione a tempo determinato o indeterminato di giovani ricercatori avviene sulla base di giudizi formulati da commissione esterne ed in genere composte da personalità straniere che sono spinte anche a giudicare il lavoro svolto nell'ambito di laboratori diversi da quelli in cui è chiesta l'assunzione. E come molto professori stranieri lo confermano, è estremamente mal visto un ricercatore che non si sia mai confrontato con realtà diverse.
Con l'attuale situazione ciò che accade è che chiunque decida di intraprendere, per un periodo limitato, una parte del proprio lavoro in un istituto differente perde la “priorità di assunzione”. Naturalmente, lo studente o ricercatore che desideri trovare un posto presso l'università dove ha condotto i propri studi si preoccuperà molto più di conservare il proprio posto nella fila piuttosto che cercare un contratto fuori con la speranza poi di ritornare nel proprio istituto di partenza con tempi di "attesa" più lunghi ed incerti. In questo modo, il cerchio si chiude con un danno enorme per la crescita formativa dei ricercatori e quindi delle università.
La situazione potrebbe essere differente se fra i requisiti necessari all'assunzione fosse richiesto che il futuro ricercatore abbia trascorso almeno due anni, a partire dal dottorato, in un istituto diverso da quello in cui richiede l'assunzione. Ciò naturalmente dopo attenta visione del valore scientifico del candidato.
In tal modo, si spezzerebbe quel circolo vizioso che non spinge i giovani ricercatori a cercare contratti con altre università italiane o straniere, e si favorirebbe uno scambio più proficuo tra i vari istituti di ricerca.
Certo questo vorrebbe anche dire mettere in discussione ed eventualmente contribuire a scardinare il forte potere baronale oggi annidato in molte università e nelle mani di molti professori. Questi ultimi infatti si ritroverebbero a poter esercitare in maniera meno forte il loro potere di pressione sui giovani ricercatori sempre allettati dalla speranza futura di un posto permanente. Il sistema spingerebbe non solo molti più ricercatori a presentarsi, in futuro, al concorso a cattedra presso un istituto, avendo con se ottime referenze; ma soprattutto molti dei ricercatori, una volta venuti a contatto con realtà diverse, si renderebbero conto dell'esistenza di molte altre opportunità oltre a quelle “promesse” dal barone di turno.

sabato 28 aprile 2007

Sarkozy- Royal. Quale politica per la ricerca francese?


Di seguito, sono riportati i link per accedere ad una lunga intervista apparsa sulla rivista Nature ai candidati alle elezioni presidenziali francesi riguardante i possibili sviluppi futuri della ricerca francese in caso di elezione all'Eliseo.

Versione inglese:

www.nature.com/nature/journal/v446/n7138/extref/446847a-s2.pdf

Versione francese:

www.nature.com/nature/journal/v446/n7138/extref/446847a-s1.pdf



Sarkozy-Royal. Quelle politique pour la recherche française?


Ici, vous trouvez les liens à une longue interview, apparue sur le magazine Nature, aux candidats à la présidentielle française concernant les développements futures de la recherche française en cas d'élection à l'Elysée.

Version anglaise:

www.nature.com/nature/journal/v446/n7138/extref/446847a-s2.pdf

Version française:

Gli immigrati. Quale integrazione?


Gli scontri tra forze dell'ordine ed immigrati cinesi a Milano hanno riproposto con violenza il tema dell'immigrazione e dell'integrazione.
Si sono ascoltate e lette dichiarazioni cariche di aggressività e rabbia da parte di italiani che non hanno fatto altro che riproporre il solito
refrain: “questa è gente che non vuole imparare la nostra lingua, non vuole condividere i nostri usi e costumi, non vuole accettare quelli che sono i nostri valori, non vuole, in altre parole, integrarsi”.
Naturalmente, l'episodio è stato strumentalizzato da frange della destra xenofoba per dare risonanza alle bieche richieste razziste di cui si fanno portatrici.
Faccio fatica però a far scorrere parallelamente i temi dell'immigrazione e dell'integrazione; almeno sino a quando mi si obbliga a vedere il secondo come una condizione necessaria per una completa e sincera accettazione dello straniero.
Quando si afferma che gli immigrati non si integrano, si vuole generalmente intendere che essi preferiscono vivere racchiusi nella loro “comunità”, senza alcuno sforzo nel cercare di intrecciare relazioni con l'esterno, e quindi con la società del Paese che li ospita, senza rispetto per le usanze locali, attentando continuamente, almeno è questo quanto si lascia trasparire, ai “valori” che contraddistinguono il nostro Paese.
L'integrazione è un'operazione che richiede almeno due operatori. Quale debba essere il secondo, se non le persone che costituiscono la collettività, ossia noi Italiani, rimane alquanto incerto a sentire la maggioranza degli interpellati. Sembrerebbe quasi che passi avanti a favore dell'integrazione possano essere compiuti senza che da parte nostra vi sia una sincera, profonda e quotidiana apertura verso gli immigrati. Ciò vuol dire semplicemente smetterla di vedere ogni immigrato come un attentatore del nostro vivere quotidiano ed usurpatore della nostra identità e dei nostri valori.
Credo sia estremamente arduo discutere di “valori” fondanti per la piega profondamente soggettiva che spesso può risultarne. Ma risulta ancora più difficile parlarne al fine di identificare regole cui tutti gli immigrati debbano attenersi. Quelli che sono i nostri “valori”, è ciò che è trascritto nei nostri codici, nelle leggi della Repubblica. E' a quelli e solo quelli cui possiamo e dobbiamo appellarci. Ma questo è ugualmente vero tanto per gli stranieri che per gli italiani, senza alcuna differenza di sorta.
Lo Stato non può obbligare nessuno ad integrarsi.
Ciascuno di noi ha la libertà di condurre una vita che risponda alle proprie prerogative, nel più assoluto rispetto delle libertà altrui, senza che si sia in nessun modo obbligati a tessere legami che non si desidera coltivare. I limiti in tutti gli atteggiamenti atti al conseguimento del nostro benessere materiale e morale, sia esso contraddistinto da un'integrazione nella società più o meno accentuata o addirittura inesistente, sono fissati soltanto dalle leggi che la nostra Repubblica si è decisa e decide di darsi.
Cosa dovrebbero fare gli immigrati affinché si possa constatare la loro avvenuta “integrazione”? Qualcuno, tra coloro sempre pronti ad alzare la voce, potrebbe cortesemente spiegarci cosa voglia davvero dire “integrazione”, e come si possa essa misurare? Queste persone sono davvero certe, a loro volta, di essere integrate? Credono di esserlo semplicemente perché parlano una lingua comune o perché condividono, almeno in linea di principio, gli stessi valori? Non credo che tale metro possa davvero essere utilizzato. In Italia, esistono regioni dove grosse fette della popolazione non condividono né una lingua né valori comuni.
Il rispetto delle leggi è la sola cosa che lo Stato può e deve chiedere, senza alcuna deroga, tanto agli immigrati quanto ai nostri concittadini. Senza che si creino intere regioni, come accade oggigiorno, dove il rispetto delle leggi sia considerato un mero optional di cui sbarazzarsi a piacimento, e che risulti addirittura svantaggioso per chi decida di vivere nel pieno rispetto dello Stato.
La comunità cinese, così come ogni altra comunità straniera, ha tutto il diritto di vivere nella propria comunità, farla crescere e prosperare purché tutto ciò avvenga nel più assoluto rispetto delle leggi della Repubblica. Che si tratti del carico e dello scarico delle merci in strada, del rispetto delle norme igieniche e sanitarie, del rispetto delle norme condominiali.
Se lo Stato non può obbligare nessuno ad integrarsi, nondimeno ha l'interesse, ed in alcuni casi l'obbligo morale, di mettere a punto tutta una serie di strumenti capaci di rendere l'inserimento degli immigrati il più possibile semplice e meno traumatico. Come accade in vari Paesi, corsi di lingua potrebbero essere organizzati in modo da aiutare ad abbattere la barriera linguistica. Cosa quest'ultima che significa anche dare dei mezzi perché l'immigrato possa a sua volta proteggersi meglio. Nei quartieri cosiddetti a rischio, creare piccole strutture che costituiscano un tramite tra l'amministrazione centrale e le periferie e capaci di organizzare, soprattutto per i giovani, eventi che permettano un sereno e proficuo scambio culturale.
Tutto questo per persone che nella stragrande maggioranza dei casi decidono di abbandonare la propria terra natale non per spirito di avventura ma per sfuggire alla miseria.
In molte città sparse in tutto il mondo, si sono costituite, oramai da decenni, più o meno grandi comunità di immigrati che hanno contribuito allo sviluppo economico se non persino culturale della collettività tutta. Tutti, Italiani compresi, hanno dovuto affrontare la diffidenza ed il confronto, spesso violento, con realtà per loro assolutamente nuove ma che rappresentavano, almeno nel loro immaginario, la sola possibilità di sopravvivenza. Tutti sono stati accolti ed apostrofati con gli stessi epiteti ascoltati qualche giorno fa in occasione degli scontri di Milano. Eppure, sono riusciti nel corso dei decenni, faticosamente ed a prezzi altissimi, a conquistare la fiducia dei loro nuovi connazionali.
Il sereno vivere civile si basa sul rispetto delle leggi della Repubblica e sul confronto aperto e senza pregiudizi tra le persone, siano esse italiane o meno. Se davvero vogliamo che gli immigrati si integrino, qualunque cosa ciò possa voler dire, chiediamo loro, semplicemente ma con fermezza, di rispettare le leggi del nostro Stato, così come lo chiederemmo ad un qualsiasi altro cittadino italiano.

lunedì 9 aprile 2007

La présidentielle vue de l'Italie...ou mieux, par un italien heureusement exilé en Europe.


Me voilà, confortablement assis dans mon fauteuil, pas aussi confortable que ça à vrai dire, prêt à suivre cette course à l'Elysée. Je me regarde autour, je jette un dernier coup d'oeil à la carte de l'Europe qui trône dans mon studio et qui m'accompagne toujours dans mes rêves. Tout est prêt, l'arbitre siffle, le spectacle commence.
Je sirote mon jus d'orange, comme d'habitude, et j'ai l'eau à la bouche pour ce qu'il m'attend, rien de moins, je le répète, que les élections présidentielles françaises. Je me dis que dans le Pays qui a vu naître l'Illuminisme, la Patrie de Voltaire, il ne peux pas ne pas être beau. On ne peux pas ne pas s'attendre à des discours de haute politique, des discours sur les principes qui devraient gouverner un pays, qui devraient indiquer la grande route, la longue de laquelle bouger, mais surtout grâce auxquelles pousser les gens à imaginer un pays différent, un future moins terne pour soi même, mais surtout pour les générations qui viendront. Je sais, je suis un peu utopique, mais cependant, je crois encore que la politique est un art très noble et qui peut vraiment aider les gens à mieux vivre, à les aider dans le concret, même si cet art peut apparaître parfois abstrait.
Après ce détournement un peu philosophique, je retourne à mon jus, et je commence à observer de près les bizarres animaux qui peuplent le panorama politique français. Je me rapproche de plus en plus de la télévision pour mieux les étudier et surtout les écouter. Je cogne contre la vitre, je faux de faire tomber la télé, je commence à m'agiter, une irrésistible sensation de malaise diffus m'assaille, je transpire profusément. Puis sans force, je tombe sur le lit...épuisé. Après quelques minutes à peine, je suis à nouveau debout, avec mon front encore trempé de sueur, mais heureux. Je venais juste d'avoir un cauchemar terrible. Je voulais suivre les débats politiques français, mais je n'avais que les chaînes nationales italiennes avec les cortèges de soi disant hommes politiques que, moi, je connais très bien et dont je peux bien m'en passer, du moins ce soir la. Tout heureux de mon réveil, je me remets devant la télévision, et du coup le même malaise m'assaille. Ce n'est pas les chaînes italiennes, ni la télévision qui ne marche pas bien. Loin de tout cela. Ce qui ne marche pas est de l'autre coté de la vitre, c'est de l'autre coté que la transformation a eu lieux. Aussi en France, croyez moi bien, mes amis, la classe politique s'est berlusconisée...et le correcteur d'orthographe ne reconnaît pas ce mot. C'est bien bizarre.
J'écoute une suite de promesses, l'une derrière l'autre, sans cesse, sans donner au spectateur le temps de penser, réfléchir. C'est ça le jeu. Ne pas pousser les gens à réfléchir, à utiliser leur cerveaux. Car si on s'arrêtait un seul instant, alors les ténèbres ne nous apparaîtraient pas si loin. Bien sur que j'exagère, mes amis français, mais cela dit, comment, expliquez le moi s'il vous plaît, on peut écouter des discours qui n'ont pas d'âme qui sont vide ou utopiques, qui ne proposent rien d'autre que réduire quelques impôts et augmenter les salaires, sans que personne leur demande tout simplement: pourriez vous m'expliquer, Mme ou M le future président, où pensez vous de prendre l'argent? Pensez vous par hasard de l'imprimer avec une imprimante laser dernier cri? En ajoutant, tout de suite après: je vous conseille ce modèle. Je l'ai déjà essayé et je vous assure que les billets de 50 euro sortent parfaitement. Et tout cela à gauche comme à droite.
Pourraient ces journalistes leur demander: quelle idée de société avez vous? Ne pensez pas que pour qu'un Pays puisse marcher sur ses propres jambes alors faut-il lui donner les moyens, qui veut dire qu'il faut investir dans l'éducation nationale, l'école, l'université, la recherche? Non pas pour avoir que des diplômés, mais pour avoir des têtes pensants, des gens qui peuvent vivre en utilisant leur liberté de façon critique sans imaginer forcement que l'on vit que pour gagner de l'argent.
Je n'ai entendu un seul mot sur cela. Mais j'ai entendu des gens de gauche écouter la marseillaise, non pas simplement car ils y croient, mais pour ne pas perdre du terrain par rapport à la droite et son populisme toujours bien présent à propos de la sécurité. Ne pensent pas ces candidats qu'on ne peut pas imaginer de militariser un pays pour résoudre les problèmes de délinquance? Mais seulement avec un effort qui démarre de la base de la société grâce à une éducation vraiment diffusée, on peut imaginer de construire un future plus lumineux?
C'est vrai, on demande trop en tant que citoyens pensants. Finalement, on a nos portables, on a la télé, on a Star Académie, et donc que vouloir de plus de la vie?

PS: Dans le numéro du Point du 22 mars 2007, dans son Bloc-notes à la fin du magasine, Bernard -Henri Lévy parle de l'arrestation de Cesare Battisti et il affirme, je cite: «Ainsi donc, c'est quelques semaines avant la présidentielle, et quelques jours avant son départ du ministère de l'Intérieur, que la police de Nicolas Sarkozy a miraculeusement retrouvé la trace de Cesare Battisti. Je n'ai pas envie de redire ici, pour la énième fois, l'horreur que m'inspirent le terrorisme et ceux qui le pratiquent. Mais je veux rappeler, en revanche, à tous ceux que cette opération absurdement électoraliste ne semble pas choquer plus que cela, un certain nombre de vérités élémentaires. Oui, Cesare Battisti vivait, quand cette affaire a commencé, sous la protection de la parole donnée, solennellement, par l'Etat français, aux anciens extrémistes italiens ayant renoncé à la lutte armée. Oui, Cesare Battisti a été condamné, dans son pays, pour des crimes qu'il a toujours niés et sur la seule foi du témoignage d'un repenti, c'est-à-dire d'un criminel achetant sa propre impunité en chargeant l'un de ses anciens complices. Et, oui, le régime italien de la contumace fait que, si le Brésil décide maintenant de l'extrader, Battisti n'aura pas droit à un nouveau procès et filera donc directement à la case prison à vie. Le problème, autrement dit, ce n'est pas seulement Battisti, ce sont les principes. Et ce sont ces principes simples que sont le respect de la parole donnée, la tradition du droit d'asile et le droit, pour chacun, quelque crime qu'on le soupçonne d'avoir commis, à un procès contradictoire où il puisse, une fois au moins, être confronté à ses accusateurs et à ses juges. Ces principes, que l'on y prenne garde, sont constitutifs du pacte républicain ; constitutifs de la morale démocratique ; et constitutifs surtout, depuis des siècles, de cette « identité nationale » dont on reparle beaucoup ces temps-ci - mais sans s'aviser, apparemment, que c'est avec des gestes comme celui-ci qu'elle est le plus insidieusement altérée. »

Cesare Battisti a été condamné pour avoir tué quatre personnes et en avoir blessés plusieurs et tout cela suite à la lutte armée qu'il supportait. Y-a-t-il quelque chose de pire d'un délit, quoi qu'il soit, politique? C'est à dire peut-on accepter que quelqu'un commette un délit suite à la faiblesse de ses idées. Car bien de cela s'agit. Je ne suis pas capable d'affirmer mes idée démocratiquement, donc j'embrasse l'idée que la lutte armée soit la seul réponse qu'il est possible de donner. Ce type de comportement, c'est ce que j'appelle un comportement fasciste.
Battisti a oui renoncé à la lutte armée, mais il l'a jamais renié. Il a toujours nié les actes pour lesquels il a été condamné, c'est vrai. Donc en France personne peut être jugé sauf s'il se déclare coupable?
De quel droit d'asile parle-t-on? Il est poursuivi pour les crimes commis et non pas pour ses idée politiques. C'est lui qui a refusé le contradictoire en prenant la fuite. Personne l'a empêché de se rendre au procès et de se défendre par les moyennes que la loi lui donne.
Un état capable de reconnaître ses propres fautes est simplement un état mure, et qui a élaboré son propre passé et ses propre fautes, s'il en a commis.
C'est un des meilleur exemple que l'état puisse donner à son propre peuple...pour l'aider enfin à retrouver du moins une partie de sa propre identité nationale.

I DS ed il Partito Democratico. Quale identità?


Il più grande partito della sinistra riformista italiana ha i giorni contati. Con l'approvazione della mozione Fassino nei congressi di sezione con oltre il 75% dei voti, i Democratici di Sinistra hanno firmato per la loro dissoluzione, ed il conto alla rovescia per la nascita del Partito Democratico è cominciato.
Il processo sulla nascita di questa futura forza politica continua quotidianamente a tenere alta l'attenzione dei mezzi di informazione con continui interventi da parte non soltanto degli attori propriamente politici, ma anche da parte della società civile che tante speranze ha riposto nel nuovo soggetto politico e che più di tutti cerca di scrutare l'orizzonte al fine di meglio comprenderne la natura e la sua futura evoluzione, ad oggi alquanto enigmatica.
L'aspetto
che più suscita accesi dibattiti è il modus operandi relativo al processo di fusione tra i DS e la Margherita. Qualcuno l'ha definito un processo di “fusione fredda”. Nella cosiddetta società civile, composta da numerosi militanti, si avverte un certo qual senso di delusione, disorientamento, frustrazione in seguito alle prime avvisaglie. La speranza di veder nascere una grande forza politica riformista, espressione diretta delle prime esperienze dell'Ulivo, sta pian piano scomparendo dinanzi ad un approccio puramente politichese, lasciando il campo alla rassegnazione. Dove sono finite, ci si chiede, tutte le energie e le esperienze espresse dai movimenti popolari degli ultimi anni e che tanto avevano contribuito ad immaginare un modo diverso di partecipazione politica, ed alla speranza in un rapporto più limpido tra i rappresentanti del “palazzo” e noi comuni cittadini? Da nessuna parte, sembra essere la risposta. Niente sembra essere rimasto di quell'esperienza e niente, se non gli apparati dei partiti, che hanno sempre guardato con un certo fastidio alle manifestazioni di piazza al di fuori del loro controllo, sembra contribuire, almeno al momento, alla costruzione del PD. Mi propongo di ritornare in un futuro post sulla nascita del nuovo soggetto politico. L'aspetto che ora mi preme di più discutere, sperando nel contributo più ampio possibile, è un altro.
Da tempo, una domanda si ripresenta continuamente e non riesco a scacciarla, se non senza una sensazione di inadeguatezza. Per poter comprendere l'orientamento politico del futuro soggetto politico, è necessario che quello delle due forze costituenti sia ben chiaro e delineato. Ma ciò che continuo a chiedermi con insistenza è quale sia, ad oggi, l'identità politica dei Democratici di Sinistra. Quali battaglie sono state condotte che ci permettono di definire un orientamento politico piuttosto che un altro?
Io purtroppo una risposta non riesco a darla, se non constatando che da tempo i DS hanno deciso di non difendere più con forza e vigore, alzando la voce ogni qual volta lo ritengano necessario, tutta una serie di principi che hanno sempre fatto parte della loro cultura e che ora sembrano, per meri calcoli politici, lasciati cadere nel dimenticatoio. Si sono abbandonate tutta una serie di battaglie che ne hanno minato le basi, assottigliandone sempre più l'elettorato, che si è visto costretto a rivolgersi altrove al fine di vedere riconosciuti e protetti quelli che considera punti fermi delle proprie scelte politiche e che hanno sempre fatto parte dei principi fondanti di una vera forza riformista di sinistra.
Due esempi su tutti: gli scontri seguiti alla presentazione da parte del Governo del disegno di legge sui Dico, e le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni, in seguito alla proposta da parte di due società estere dell'acquisto del 66% delle azioni della compagnia Olimpia che controlla direttamente la Telecom Italia.
La presentazione del disegno di legge sul riconoscimento dei diritti dei conviventi da parte del Governo ha scatenato fortissimi contrasti all'interno della coalizione di centro-sinistra. Non è mia intenzione entrare nel merito di tale disegno di legge. Mi limito ad osservare come vi siano stati scontri anche violenti tra la sinistra radicale e l'ala cattolica della Margherita senza che non vi fosse alcuna presa di posizione forte da parte dei democratici di sinistra. A parte qualche esternazione della sinistra del partito, niente o poco è venuto dalla dirigenza. In maniera molto fiera si è riconosciuto l'importanza di aver trovato una sintesi tra le diverse anime della coalizione, cosa certamente buona e giusta; ma è troppo chiedere ai dirigenti quale sia la loro posizione e quale quella del partito. Ormai, la sintesi è stata trovata. Questo vuol dire che si è preso atto delle posizioni di tutti. Ma ciascun componente della coalizione, seppur ben accettando il compromesso, ha sempre tenuto a sottolineare la propria collocazione in merito, cercando di argomentarla per meglio difenderla dalle posizioni altrui. Ma da parte dei DS nessuna voce si è alzata per difendere una posizione piuttosto che un'altra. Sarà stato per spirito di coalizione? Per evitare che una volta tanto non vi fossero troppe voci a discettare su tutto e tutti? Strano che questo mirabile sforzo sia giunto proprio su un tema tanto importante e delicato che polarizza fortemente le coscienze e l'interesse dei cittadini, che si è ritrovato sotto un fuoco di fila impressionante da parte della Chiesa, e che costituisce una delle ragion d'essere di una forza riformista di sinistra. Io temo, molto più prosaicamente, che si sia scelto di non accentuare lo scontro per evitare un allontanamento di una fetta di elettori che potremmo definire eticamente moderati e che avrebbero potuto risentire di una posizione netta da parte della dirigenza. Certo, bisogna scegliere quali elettori non voler perdere.
Affare Telecom. Sono trascorsi oramai circa quattordici anni dalla discesa in campo di Berlusconi, e da allora, uno dei temi predominanti della diatriba politica è stato il conflitto di interessi incarnato dal leader dell'opposizione. Nonostante il tanto parlarne, ad oggi, niente si è mosso e né si prevede che qualcosa accada prossimamente. Per inciso, la mancata discussione di un disegno di legge che permetta di risolvere il problema costituisce un altro dei temi che potrebbero aiutare a capire l'identità dei DS; ma non voglio uscire fuori traccia, ed allora mi accontento di osservare quanto accaduto in questi ultimi giorni. Dopo discussioni infinite sul pericolo rappresentato dal dominio di Berlusconi in un ambito tanto delicato quale quello delle comunicazioni, da alti dirigenti del partito si è accennato alla possibilità che Berlusconi potrebbe anche fare un offerta e cercare di strappare dalle “grinfie straniere” il controllo della Telecom nel nome dell'italianità dell'azienda.
Innanzitutto, ciò non è attualmente consentito dalla legge Gasparri; poi, mi chiedo come sia possibile, dopo anni di battaglie, sia pure solo a parole e di principi, fare una piroetta su se stessi e riconoscere come valido interlocutore qualcuno che sino a poco fa costituiva un'anomalia ed un pericolo per il sistema radiotelevisivo e quindi per il corretto funzionamento della democrazia italiana.
Ora, se il buongiorno si vede dal mattino, non credo ci sia da stare tranquilli sul futuro partito democratico.
Come sarà possibile coniugare al suo interno il concetto di laicità dello stato se a tutt'oggi non si è capaci di esprimere una posizione unitaria e forte all'interno del partito? Come si riuscirà a confrontarsi con i teodem della Margherita che considerano la laicità dello stato come qualcosa su cui poter discutere e non un principio fondante di una moderna democrazia? Saremo, noi cittadini, costretti, ogni qual volta una tale discussione sarà aperta in seno alla futura dirigenza, ad accontentarci di compromessi al ribasso e che ci allontanano sempre più dagli altri Paesi europei?
Hanno ragione coloro che, con la costruzione del partito democratico, temono la scomparsa, caso unico in Europa, di un solido partito riformista di sinistra?
Io credo che una ragione fondamentale ci sia. Senza la creazione del futuro soggetto politico, sia la Margherita che i DS sono troppo deboli, da soli, per costruire intorno a loro un polo riformista autonomo. Quindi, la fusione dei due partiti è dettata a mio avviso da puri calcoli elettorali. Poiché la politica è fatta di numeri e per governare è necessaria la maggioranza, la suddetta ragione può essere più che sufficiente.
Si vorrebbe soltanto che fra le varie ragioni che di volta in volta sono addotte per giustificare la nascita del PD, venisse anch'essa elencata. Si risparmierebbe in tal modo di far apparire sempre le ragioni degli scettici come un puro tentativo di demonizzazione del futuro soggetto politico.

venerdì 6 aprile 2007

Pourquoi ce blog?



L'idée d'ouvrir ce blog est née après une longue gestation. Depuis long temps désormais, je ressentais, toujours plus forte, l'impulsion de donner lieu à une discussion, le plus possible ouverte à toute contribution constructive, sur l'état de la politique, avec une allusion particulière à la politique des Etats dans le contexte européen.
L'idée est celle de donner la voix à tous ceux qui auront envie, qui désireront essayer de se confronter sur les thèmes de la politique. A entendre non simplement comme actualité politique, ma aussi comme « l'ensemble des fins que l'État vise et des instruments utilisés pour y arriver ». Le titre en haut de la page, « Quale Politica?», (Quelle Politique?), veut renfermer en soi cet aspect double lié et aux événements quotidiens qui marquent la saison politique, et à la vision de la société qui accompagne les idées politiques que chacun de nous a et sans laquelle, à mon avis, la politique se réduit à une pure administration du quotidien sans d'élans constructifs.
De tout cela, je voudrai essayer de discuter avec tous ceux qui auront envie d'intervenir, laisser un message même bref. Essayer de créer un lieu où on puisse se rencontrer, et imaginer d'échanger des opinions, ainsi on le faisait il y a long temps. Je suis persuadé que chacun de nous puisse apporter ses propres expériences, ses propres vécus et ses propres idées à cette discussion commune que je désire ouvrir ici. Et cette discussion sera autant plus enrichie car soutenue, j'espère, par des gens qui vivent par tout en Europe et non, et qui sont porteurs de vécus et d'idées qui ne peuvent pas ne pas ressentir de la réalité et de la culture locale.
Ce ci est le défi majeur que je me propose avec vous: essayer de discuter de politique, en ayant derrière nous des expériences différentes et liées aux endroits où la vie, avec de la joie où de la résignation, nous a conduit.
Avant de terminer cette brève intervention introductive, je tiens à souligner que l'adresse de ce blog, la nuova Europa (la nouvelle Europe), veut rendre un hommage à notre magnifique Europe et à son processus d'unification, que j'ai plusieurs fois défini comme la plus grande révolution politique et culturelle à laquelle nous avons la chance d'assister et qui est en train de changer en profondeur notre vie et celle de nos propres Pays. J'espère qu'un jour, malgré toutes les difficultés que le processus d'unification rencontre et qui continuera à rencontrer, sera vraiment possible pour nous tous de nous sentir citoyens de la commune Maison Européenne, en allant bien au delà de toutes les méfiances et les formes de nationalisme qui à nos jours gouvernent les rapports politiques entre les États.