martedì 1 maggio 2007

Piccola proposta per l'assunzione di nuovi ricercatori nelle università italiane.


L'attuale struttura degli istituti di ricerca italiani ed in particolare delle università permette, a mio avviso, di poter parlare di vera e propria chiusura stagna nei confronti di qualsiasi elemento esterno. Voglio intendere con ciò che la possibilità che ricercatori, che abbiano svolto una parte dei loro studi e del loro lavoro di ricerca in un istituto terzo, sia esso in Italia o all'estero, possano poi essere assunti è molto bassa. Si assiste a casi in cui studenti diventino poi ricercatori senza aver mai messo i piedi fuori dal loro istituto; senza mai essere usciti fuori a confrontarsi con modi di pensare e lavorare differenti.
Non sto mettendo in discussione la validità di questi ricercatori, ma credo che una conseguenza inevitabile di tali diffusi comportamenti sia un impoverimento profondo delle strutture di ricerca che si ritrovano chiuse su se stesse, con una enorme difficoltà ad aprirsi ai circuiti internazionali, e tagliate fuori quindi da grandi progetti transfrontalieri. E se il confronto continuo costituisce uno dei pilastri nell'avanzamento della ricerca, si capisce che il mancato coinvolgimento in network più o meno estesi costituisca un danno profondo al sistema universitario italiano e della ricerca in generale.
Nelle classifiche delle università stilate da vari organi internazionali, uno dei fattori che pesa sul giudizio finale è il grado di internazionalità della struttura universitaria, ossia quanto quest'ultima è capace di attrarre ricercatori dall'estero ed, aggiungo io, dall'esterno.
Oltre sicuramente a vari fattori che possono certamente scoraggiare, credo che le relazioni di lavoro si costruiscano non dall'oggi al domani, ma dopo un lungo percorso e soprattutto negli anni iniziali di formazione, a partire dal dottorato di ricerca, proseguendo poi con i contratti post-dottorali. E' in questo periodo che molte delle amicizie lavorative cresceranno dando poi i loro frutti in collaborazioni nell'ambito del proprio campo di ricerca. Queste collaborazioni, che ciascun ricercatore porta con se, costituiscono a tutti gli effetti un patrimonio fertile non solo, ripeto, per il semplice ricercatore ma anche e soprattutto per l'istituto di ricerca dove egli lavorerà. L'università si ritroverà ad avere in maniera semplice contatti già avviati e ben rodati con altri istituti, italiani e stranieri, avendo la possibilità di instaurare relazioni ancora più profonde con grande beneficio soprattutto per ciò che riguarda la produzione scientifica.
Al contrario, oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, un ricercatore, in Italia, comincerà la sua carriera da studente in un'università per poi essere assunto come ricercatore nella stessa; per poi scalare, si spera, i vari gradini gerarchici sempre nello stesso istituto.
A onor del vero ciò accade anche in altri Paesi europei che spesso sono presi come esempi, ma in maniera molto minore. E sempre meno. L'assunzione a tempo determinato o indeterminato di giovani ricercatori avviene sulla base di giudizi formulati da commissione esterne ed in genere composte da personalità straniere che sono spinte anche a giudicare il lavoro svolto nell'ambito di laboratori diversi da quelli in cui è chiesta l'assunzione. E come molto professori stranieri lo confermano, è estremamente mal visto un ricercatore che non si sia mai confrontato con realtà diverse.
Con l'attuale situazione ciò che accade è che chiunque decida di intraprendere, per un periodo limitato, una parte del proprio lavoro in un istituto differente perde la “priorità di assunzione”. Naturalmente, lo studente o ricercatore che desideri trovare un posto presso l'università dove ha condotto i propri studi si preoccuperà molto più di conservare il proprio posto nella fila piuttosto che cercare un contratto fuori con la speranza poi di ritornare nel proprio istituto di partenza con tempi di "attesa" più lunghi ed incerti. In questo modo, il cerchio si chiude con un danno enorme per la crescita formativa dei ricercatori e quindi delle università.
La situazione potrebbe essere differente se fra i requisiti necessari all'assunzione fosse richiesto che il futuro ricercatore abbia trascorso almeno due anni, a partire dal dottorato, in un istituto diverso da quello in cui richiede l'assunzione. Ciò naturalmente dopo attenta visione del valore scientifico del candidato.
In tal modo, si spezzerebbe quel circolo vizioso che non spinge i giovani ricercatori a cercare contratti con altre università italiane o straniere, e si favorirebbe uno scambio più proficuo tra i vari istituti di ricerca.
Certo questo vorrebbe anche dire mettere in discussione ed eventualmente contribuire a scardinare il forte potere baronale oggi annidato in molte università e nelle mani di molti professori. Questi ultimi infatti si ritroverebbero a poter esercitare in maniera meno forte il loro potere di pressione sui giovani ricercatori sempre allettati dalla speranza futura di un posto permanente. Il sistema spingerebbe non solo molti più ricercatori a presentarsi, in futuro, al concorso a cattedra presso un istituto, avendo con se ottime referenze; ma soprattutto molti dei ricercatori, una volta venuti a contatto con realtà diverse, si renderebbero conto dell'esistenza di molte altre opportunità oltre a quelle “promesse” dal barone di turno.

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