sabato 19 maggio 2007

Di seguito è riportato il documentario, con sottotitoli in italiano, realizzato dalla BBC e trasmesso nel Regno Unito nel 2006 sulle coperture operate dal Vaticano per coprire i crimini a sfondo sessuale da parte dei preti pedofili nelle varie diocesi nel mondo.
Nel nostro Paese, dove la libertà di stampa è costantemente messa a dura prova da molti fattori, tra i quali naturalmente una continua ossequiosità alle gerarchie ecclesiastiche, i mass media nazionali non ne hanno parlato affatto. Tutto è passato sotto silenzio. Anche da parte di coloro che si sono sempre dichiarati concordi nell'affermare che una notizia, quale che sia, dovrebbe essere sempre riportata. Purtroppo questo è vero a patto che non venga infastidito il potente di turno.
E la chiesa è sempre stata molto potente.

Per motivi di copyright il video è stato rimosso.

martedì 8 maggio 2007

Alcune domande sull'Europa al futuro presidente della Repubblica francese.


La vittoria del candidato della destra gaullista alle presidenziali francesi ha rilanciato in molte capitali europee e tra numerosi cittadini il dibattito sui futuri passi che il processo di unificazione europeo dovrà o potrà compiere.
Ricordiamo che il suddetto processo aveva subito una forte battuta di arresto proprio in seguito alla bocciatura, dopo referendum popolare, del trattato per l'adozione di una Costituzione per l'Europa da parte del popolo francese e successivamente olandese. Non va però dimenticato che nel frattempo, il trattato è stato regolarmente ratificato da 18 Paesi sia attraverso la via parlamentare che referendaria.
Il silenzio seguito alla bocciatura del trattato credo abbia segnato uno dei passaggi tra i più tristi ed irresponsabili che il processo di unificazione abbia conosciuto. E' sembrato che il soffio vitale che aveva accompagnato la stesura del trattato, seppur avvenuta tra mille difficoltà, incomprensioni, compromessi, fosse non solo scomparso, ma che avesse strappato e portato via con se il desiderio di procedere sulla via dell'integrazione politica. Certo, l'adozione del Trattato costituiva la finalizzazione di quegli sforzi; eppure, si è avuta l'impressione che una qualche paura si fosse impadronita improvvisamente dei capi di Stato e di governo: il processo di unificazione politica è sembrato essere scomparso, almeno ufficialmente, dalle agende politiche dei vari incontri, soprattutto per ciò che riguardava le possibili soluzioni alternative.
E' mancato un leader capace di affermare con forza ciò di cui si aveva urgentemente bisogno, e cioè del proseguimento, tra gruppi più o meno ristretti, sul cammino dell'unificazione politica. Forse è stato proprio in quei momenti che tutta la debolezza politica dell'Europa è venuta fuori: la mancanza di capacità nel definire un percorso alternativo per tenere saldamente incollati i “pezzi” che avevano deciso democraticamente di starci.
Non è certo la prima crisi di tale portata che l'Europa si trova ad affrontare e non sarà l'ultima. Però nel momento in cui un nuovo presidente francese è stato designato, una riflessione ed alcune domande bisogna che siano esternate, ed in particolare rivolte al futuro inquilino dell'Eliseo.
Nicolas Sarkozy si è sempre dichiarato un convinto europeista, a patto naturalmente che alcune sue idee fossero condivise da tutti gli altri.
Uno dei temi centrali della sua campagna elettorale, è stato il risveglio dell'identità nazionale repubblicana francese, con accenti che sono apparsi frequentemente tanto forti da far pensare ad un certo nazionalismo di ritorno.
Ancora la sera della proclamazione dei risultati, durante i bagni di folla che hanno accompagnato i suoi spostamenti ha sempre tenuto a sottolineare questa rinascita dell'identità francese, accolto da folle urlanti in delirio che cantavano a squarciagola la Marsigliese.
Storicamente parlando, la difesa di una forte identità nazionale, seppur animata dalle migliori intenzioni, ha sempre avuto un costo altissimo. Non mi spingo a quanto avvenuto nella prima metà del XX secolo, ma a ciò che ha costituito il percorso ad ostacoli, dalla nascita ai nostri giorni, della Comunità Europea prima e dell'Unione poi. Un percorso lungo il quale faticosamente si è riusciti con molti equilibrismi e fini compromessi a tenere insieme Paesi che sembravano fatti per essere gli uni lontani dagli altri.
Eppure, anno dopo anno, si era creduto di aver acquisito, forse troppo ottimisticamente, un certo acquis communautaire, un certo savoir faire proprio grazie alle battaglie diplomatiche che faticosamente avevano permesso la costruzione delle fondamenta della comune Casa europea.
Ho l'impressione, ma mi auguro di sbagliarmi, che l'elezione di Nicolas Sarkozy possa riportare le lancette dell'orologio della storia comunitaria di qualche anno indietro, dove l'interesse di parte costituiva l'unico argomento posto sul tavolo dei negoziati.
E sarà tanto più difficile chiedere ad alcuni Stati dell'Europa dell'est un ammorbidimento delle loro posizioni nazionalistiche se per primi i francesi non saranno in grado di comprendere che soltanto una condivisione delle rinunce potrà permettere un fecondo avanzamento sulla via di una costruzione dell'Europa politica.
La preoccupazione per la prossima attitudine della Francia nasce dalle dichiarazioni di Sarkozy di voler riprendere e modificare il trattato costituzionale al fine di sottoporlo nuovamente al vaglio del voto popolare.
Come ha affermato il principale estensore del trattato, presidente dell'assemblea costituente ed ex-presidente della Francia, Valéry Giscard d'Estaing, mettere mano al trattato è impensabile per l'ostilità che si riscontra negli altri Paesi che non hanno alcuna voglia di aprire una discussione che si preannuncia ancor prima di iniziare, lunga ed estenuante, e dove si rischia di riaprire i giochi su tutti i possibili fronti di discussione. Chi deciderebbe dove il trattato debba essere sforbiciato, o ritoccato? E se questo fosse accompagnato dalla richiesta di uno Stato di modificare una clausola sulla quale vi era già stata un'aspra battaglia, con la speranza che la maggioranza possa cambiare, chi potrà dirgli di no?
Ma soprattutto cosa diremo a quei cittadini che hanno approvato per via referendaria il trattato e che si trovano esposti nuovamente ad una discussione che potrebbe portare, ironia della sorte, alla richiesta di un nuovo voto. Non si rischia di indebolire l'istituto referendario e la fiducia dei cittadini nel governo europeo? Non ci si trova dinanzi ad una forma di grave egoismo nazionalistico nel momento in cui si domanda, in nome del rispetto del popolo sovrano, quello del proprio Paese naturalmente, che tutti gli altri Stati chiedano ai propri cittadini di esprimersi nuovamente su qualcosa già largamente accettato in un ampio numero di Nazioni? E se gli altri non accettassero? Bisognerebbe continuare in questo stato di stallo? Oppure qualcuno pensa di adottare nuovamente la politica della sedia vuota? Infine, per quanto imperfetto potesse essere, perché in occasione del referendum francese, mostrando la più classica delle ambiguità politiche, non si è fortemente appoggiato il progetto costituente? Eccetto il presidente Chirac, nessuno degli esponenti di primo piano della politica francese ha sostenuto con vigore il trattato. Per l'europeista Sarkozy, non credo che questa sia la migliore credenziale per presentarsi al prossimo Consiglio d'Europa.
L'Europa ha bisogno di rinnovarsi e di proseguire lungo il cammino delle riforme istituzionali per poter assumere un nuovo volto politico ed un nuovo assetto istituzionale. E se è impensabile modificare le attuali Istituzioni senza il consenso più largo possibile, ed eventualmente, l'unanimità, che allora qualcuno abbia il coraggio di alzarsi e provare a condurre per mano, attraverso gruppi ristretti e collaborazioni rafforzate, il nostro vecchio e caro continente.
Sono i cittadini a chiederlo.

sabato 5 maggio 2007

Déserteurs...aux urnes


Pour tous ceux qui théorisent le combat quotidien entre les gens, suite à leurs idées, leurs extraction sociale, la couleur de leur peau, leur religion;
pour ceux qui pensent qu'on puisse résoudre les problèmes des banlieues en n'utilisant que la police, pour les militariser;
pour ceux qui pensent que le but principale de la vie est de travailler forcement plus pour gagner plus d'argent, et que l'on ne puisse pas dédier du temps à la lecture d'un livre, à regarder le sourire des gens autour de nous;
pour ceux qui pensent que le mot croissance ne se décline désormais plus que pour l'économie, sans imaginer que seul une croissance culturelle pourra comporter une vrai renaissance sociale;
pour ceux qui sont fiers de réveiller le sentiment du nationalisme, en disant, au même temps, d'être pour une Europe politique unie;
pour ceux qui pensent que dire oui ou non ne dépend que de ce que la majorité des citoyens croit, sans avoir une vision capable d'aller au delà des intérêts de son propre Pays pour la construction de la commune Maison européenne;
pour ceux qui commémorent les morts de la Patrie, mais oublient la raison pour laquelle, eux, ils ont combattu.
Pour tous ceux qui s'imaginent déjà président de la République, qui se sentent des généraux prêts à partir pour une mission et qui choisissent leurs peuples en tant que soldats:


Monsieur le président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Monsieur le Président
Je ne veux pas la faire
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens
C'est pas pour vous fâcher
Il faut que je vous dise
Ma décision est prise
Je m'en vais déserter

Depuis que je suis né
J'ai vu mourir mon père
J'ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants
Ma mère a tant souffert
Qu'elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers
Quand j'étais prisonnier
On m'a volé ma femme
On m'a volé mon âme
Et tout mon cher passé
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte
Au nez des années mortes
J'irai sur les chemins

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France
De Bretagne en Provence
Et j'irai dire aux gens
Refusez d'obéir
Refusez de la faire
N'allez pas à la guerre
Refusez de partir
S'il faut donner son sang
Aller donner le vôtre
Vous êtes bon apôtre
Monsieur le président
Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n'aurai pas d'armes
Et qu'ils pourront tirer

Boris Vian, 1954

martedì 1 maggio 2007

Piccola proposta per l'assunzione di nuovi ricercatori nelle università italiane.


L'attuale struttura degli istituti di ricerca italiani ed in particolare delle università permette, a mio avviso, di poter parlare di vera e propria chiusura stagna nei confronti di qualsiasi elemento esterno. Voglio intendere con ciò che la possibilità che ricercatori, che abbiano svolto una parte dei loro studi e del loro lavoro di ricerca in un istituto terzo, sia esso in Italia o all'estero, possano poi essere assunti è molto bassa. Si assiste a casi in cui studenti diventino poi ricercatori senza aver mai messo i piedi fuori dal loro istituto; senza mai essere usciti fuori a confrontarsi con modi di pensare e lavorare differenti.
Non sto mettendo in discussione la validità di questi ricercatori, ma credo che una conseguenza inevitabile di tali diffusi comportamenti sia un impoverimento profondo delle strutture di ricerca che si ritrovano chiuse su se stesse, con una enorme difficoltà ad aprirsi ai circuiti internazionali, e tagliate fuori quindi da grandi progetti transfrontalieri. E se il confronto continuo costituisce uno dei pilastri nell'avanzamento della ricerca, si capisce che il mancato coinvolgimento in network più o meno estesi costituisca un danno profondo al sistema universitario italiano e della ricerca in generale.
Nelle classifiche delle università stilate da vari organi internazionali, uno dei fattori che pesa sul giudizio finale è il grado di internazionalità della struttura universitaria, ossia quanto quest'ultima è capace di attrarre ricercatori dall'estero ed, aggiungo io, dall'esterno.
Oltre sicuramente a vari fattori che possono certamente scoraggiare, credo che le relazioni di lavoro si costruiscano non dall'oggi al domani, ma dopo un lungo percorso e soprattutto negli anni iniziali di formazione, a partire dal dottorato di ricerca, proseguendo poi con i contratti post-dottorali. E' in questo periodo che molte delle amicizie lavorative cresceranno dando poi i loro frutti in collaborazioni nell'ambito del proprio campo di ricerca. Queste collaborazioni, che ciascun ricercatore porta con se, costituiscono a tutti gli effetti un patrimonio fertile non solo, ripeto, per il semplice ricercatore ma anche e soprattutto per l'istituto di ricerca dove egli lavorerà. L'università si ritroverà ad avere in maniera semplice contatti già avviati e ben rodati con altri istituti, italiani e stranieri, avendo la possibilità di instaurare relazioni ancora più profonde con grande beneficio soprattutto per ciò che riguarda la produzione scientifica.
Al contrario, oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, un ricercatore, in Italia, comincerà la sua carriera da studente in un'università per poi essere assunto come ricercatore nella stessa; per poi scalare, si spera, i vari gradini gerarchici sempre nello stesso istituto.
A onor del vero ciò accade anche in altri Paesi europei che spesso sono presi come esempi, ma in maniera molto minore. E sempre meno. L'assunzione a tempo determinato o indeterminato di giovani ricercatori avviene sulla base di giudizi formulati da commissione esterne ed in genere composte da personalità straniere che sono spinte anche a giudicare il lavoro svolto nell'ambito di laboratori diversi da quelli in cui è chiesta l'assunzione. E come molto professori stranieri lo confermano, è estremamente mal visto un ricercatore che non si sia mai confrontato con realtà diverse.
Con l'attuale situazione ciò che accade è che chiunque decida di intraprendere, per un periodo limitato, una parte del proprio lavoro in un istituto differente perde la “priorità di assunzione”. Naturalmente, lo studente o ricercatore che desideri trovare un posto presso l'università dove ha condotto i propri studi si preoccuperà molto più di conservare il proprio posto nella fila piuttosto che cercare un contratto fuori con la speranza poi di ritornare nel proprio istituto di partenza con tempi di "attesa" più lunghi ed incerti. In questo modo, il cerchio si chiude con un danno enorme per la crescita formativa dei ricercatori e quindi delle università.
La situazione potrebbe essere differente se fra i requisiti necessari all'assunzione fosse richiesto che il futuro ricercatore abbia trascorso almeno due anni, a partire dal dottorato, in un istituto diverso da quello in cui richiede l'assunzione. Ciò naturalmente dopo attenta visione del valore scientifico del candidato.
In tal modo, si spezzerebbe quel circolo vizioso che non spinge i giovani ricercatori a cercare contratti con altre università italiane o straniere, e si favorirebbe uno scambio più proficuo tra i vari istituti di ricerca.
Certo questo vorrebbe anche dire mettere in discussione ed eventualmente contribuire a scardinare il forte potere baronale oggi annidato in molte università e nelle mani di molti professori. Questi ultimi infatti si ritroverebbero a poter esercitare in maniera meno forte il loro potere di pressione sui giovani ricercatori sempre allettati dalla speranza futura di un posto permanente. Il sistema spingerebbe non solo molti più ricercatori a presentarsi, in futuro, al concorso a cattedra presso un istituto, avendo con se ottime referenze; ma soprattutto molti dei ricercatori, una volta venuti a contatto con realtà diverse, si renderebbero conto dell'esistenza di molte altre opportunità oltre a quelle “promesse” dal barone di turno.